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21
Feb

2,028
Il ritmo misterioso dell’empatia

Il ritmo misterioso dell’empatia

[di Nicola Gaiarin]

L’empatia va di moda. Basta aprire un qualsiasi manuale di coaching per trovare la formula magica: “Occorre stabilire un rapporto empatico con l’altra persona”. Ma è possibile riuscirci? Io credo di sì, ma occorre andare al di là del significato immediato e, per così dire, ingenuo che di solito attribuiamo a questo termine.

Essere empatici significa stabilire un rapporto di consonanza con quello che prova la persona che abbiamo davanti. Sentire quello che sente lei. Provare gli stessi sentimenti. Insomma, essere empatici significa mettersi nei panni dell’altro. Ma questo ci pone di fronte a una scelta: o accettiamo l’altro nella sua “alterità”, e quindi siamo consapevoli che non potremo mai fino in fondo raggiungere la sua interiorità, capire realmente quello che prova e pensa; oppure facciamo dell’altro una proiezione di noi stessi, una creatura della nostra immaginazione, riducendolo alla figura un po’ inquietante di un doppio o un sosia. In questo modo, però, perdiamo la specificità dell’altra persona, la sua singolarità. La sua differenza.

Eppure, l’empatia vale la pena di essere praticata. Ci aiuta in questo senso un libro molto stimolante di Laura Boella di qualche tempo fa, Sentire l’altro. La prima cosa che ci insegna questo libro è che l’empatia ha una storia. Che non è solo un’esperienza intuitiva riscoperta dal guru del management di turno, ma che ha una lunga tradizione di elaborazione concettuale alle spalle. Non che questo sia necessariamente sinonimo di validità, ma quantomeno sapere che, ad esempio, su questo tema si è giocata una partita importante per la filosofia del XX secolo (coinvolgendo personaggi del calibro di Edmund Husserl ed Edith Stein) ci suggerisce di muoverci in modo circospetto, evitando di accelerare e di accettare le definizioni troppo riduttive. Ma Boella ci dice anche che non è con la storia di un’idea che possiamo sperare di avvicinarci al nucleo misterioso che sembra custodire l’esperienza dell’empatia. Perché, innanzitutto, l’empatia è qualcosa che si vive.

Ma c’è di più. Forse l’empatia è la condizione emotiva e cognitiva che ci permette di accedere a un’esperienza fondamentale: la scoperta di essere immersi in un orizzonte intersoggettivo. Per dirla in modo più semplice, la consapevolezza che nella nostra vita non siamo soli. C’è sempre qualcun altro (la versione horror di questa affermazione la troviamo nel film The Others, che non a caso parla di fantasmi). Senza l’altro non ci sono nemmeno io. La mia identità è costituita fin dall’inizio come apertura alla possibilità di incontrare l’altro. L’empatia, allora, ci fa scoprire la radicale alterità presente all’interno di ciascuno di noi. Questo accesso, però, non può essere tranquillizzante.

L’empatia non è una password per entrare nel mondo emotivo dell’altro. Sperimentare l’empatia significa imparare a vivere il rapporto con l’altro come in una danza. La vita interiore di ciascuno segue il proprio battito. L’empatia non ci serve per cogliere il contenuto emotivo e cognitivo dell’espressione altrui, ma ci permette di trovare una consonanza musicale. Impariamo a cogliere il suono o la cadenza dell’esperienza altrui. Per farlo dobbiamo seguire le movenze dell’altro, riprodurre, nel nostro mondo di sensazioni, affetti e pensieri, la sua danza emotiva. E come in una danza l’empatia ci fa scoprire un universo di relazioni complesse, di reciprocità irrisolte, un nodo in cui corpo e anima, emozioni e pensieri, io e altro si relazionano dando vita a una trama di rapporti in cui facciamo esperienza di un continuo scambio tra passività e attività. Non è una sola persona a condurre la danza. La verità di questo incontro sta proprio nel continuo ribaltamento dei ruoli. E nella consapevolezza che la nostra identità non può pretendere di essere immobile. Solo nel movimento e nel ritmo dell’apertura all’altro diventiamo, paradossalmente, noi stessi.

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